PALAZZO ARCIVESCOVILE

Primi risultati inediti

Memoria preziosa

di Federico Riccobono

La grande fabbrica medievale del Palazzo arcivescovile di Milano doveva stupire cittadini e visitatori per la sua rara raffinatezza: facciate animate da bifore con archetti trilobati, capitelli variamente decorati, archi a sesto acuto, cornici in cotto sagomato… Su tutto campeggia, ancora oggi, il monumentale stemma visconteo, vero gioiello araldico.

Quando negli anni ’50 del Novecento si pensò di porre mano al restauro dell’Arcivescovado di Milano, anch’esso colpito, seppur marginalmente, dai bombardamenti dell’agosto del 1943, alcune delle facciate dello sterminato palazzo si presentavano in uno stato “disadorno”.

Questo aspetto poco “monumentale” rispetto agli edifici con cui dialogava ogni giorno fece scaturire già nel corso dell’Ottocento numerose proposte di rettifica dei prospetti esterni, tuttavia sempre rimaste sulla carta. Gli unici interventi si concentrarono sul fronte principale prospettante sullo slargo del Verziere (Piazza Fontana), come è il caso della nota riqualificazione operata dal Piermarini già a fine Settecento.

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Solo alla fine del secolo XIX un intervento di restauro più articolato coinvolse l’intero edificio ad opera dell’architetto Cesare Nava.

I lavori interessarono ancora una volta maggiormente la facciata principale, individuando al contempo tracce delle prime quattro monofore della facciata nord su via Carlo Maria Martini. Tuttavia, pressocché non svelata rimaneva la ricca ornamentazione medievale del restante prospetto settentrionale e di quello a ovest sulla stretta via di Palazzo Reale, restando coperta da un’anonima intonacatura punteggiata dalle numerose finestre rettangolari corrispondenti alle intricate sistemazioni dei vani interni.

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Intanto, però, a fine Ottocento una fortuita caduta di intonaco svelava, sul fronte di via delle Ore, ampi brani di pitture ornamentali.

Mentre nell’estate del 1930, sulla via di Palazzo Reale, durante opere di scrostamento del prospetto, “affiorarono le vecchie mura di questa antica costruzione medievale con traccia di un bellissimo arco a sesto acuto i di cui conci sono lavorati con semplicità da qualche motivo a dadi”. L’arco, pienamente valorizzato solo dai restauri successivi, costituiva uno degli accessi trecenteschi all’ampia corte corrispondente grossomodo al cortile dei Canonici, riformato nel XVI secolo.

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I restauri post-bellici, avviati con il concorso del Genio Civile, inaugurarono una serie di interventi protrattisi nel tempo che ebbero il merito di rivelare finalmente il raffinato aspetto della fabbrica medievale.

Vennero così alla luce le ampie bifore gotiche che caratterizzavano il piano nobile dell’edificio trecentesco. Gli interventi, certamente invasivi, andarono a reintegrare molte delle aperture originarie; è il caso ad esempio delle ultime tre bifore prospicenti l’ingresso laterale del Duomo, che furono completamente riprese nella loro antica articolazione. Delle altre, tamponate dalle aperture rettangolari a esse sovrapposte, si rimise in luce quanto rimaneva della struttura originaria fatta di cornici in cotto sagomate, in parte ancora ricoperte da dipinti ornamentali a motivi geometrici.

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I capitelli, sorreggenti gli archetti trilobati degli ampi finestroni gotici, stupiscono oggi per la varietà decorativa, ponendoci al contempo interrogativi circa il loro rapporto con la fase viscontea dell’edificio. Sono declinati in due principali tipologie, ovvero a foglie lisce dette “a foglia d’acqua” e a foglie accartocciate del tipo “a crochet”, motivi largamente diffusi a Milano già a partire dalla metà del XIII secolo, ma ancora in voga fino alla seconda metà di quello successivo. Tale varietà si riscontra ampiamente anche sul fronte ovest, dove ritroviamo lo stesso repertorio e la presenza, in tre casi, di una base a foglie angolari a sorreggere l’esile colonna centrale delle bifore.

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Ancora, sulla facciata nord, poco sotto la cornice marcapiano, tra la sesta e la settima bifora, campeggia la monumentale insegna dei Visconti nella forma di “scudo a mandorla”, una tipologia che ebbe larga fortuna a giudicare anche solo da alcuni esemplari custoditi presso il Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco datati tra la metà e la seconda metà del XIV secolo. Lo stemma era un tempo circondato da una cornice in cotto lavorato a quadrilobi di cui rimangono alcuni frammenti lungo i profili arrotondati. La I e la O ai due lati dell’elegante viluppo del drago testimoniano il riferimento al proprietario del palazzo, ovvero Giovanni Visconti, signore di Milano, sul soglio episcopale fino al 1354.

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L’alta qualità del manufatto costituisce un pezzo di scultura di rara raffinatezza esecutiva. La figura del giovane che esce dalla bocca del
mostro a mani alzate mostra una sensibilità naturalistica avvertibile nella folta capigliatura indagata con minuzia, come pure nella
ealistica rappresentazione anatomica del corpo nudo. Caratteri che paiono quantomeno rari per la scultura di uno stemma e che sembrano rimandare alla grande stagione della scultura trecentesca milanese.
L’insegna di famiglia ritorna in forma di capitello nella penultima delle bifore riemerse sul fronte ovest. Si tratta di una versione meno raffinata rispetto alla precedente, ma parimenti significativa in virtù dell’abilità, tutta medievale, di reinventare il tema araldico giocando sulla ripetizione circolare dello stemma nelle quattro facce del capitello. E anche questa è una delle tante sorprese che può donarci il semplice gesto di alzare lo sguardo verso l’alto mentre si passeggia tra le vie dell’Insula Viscontea.

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